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Maurice Tillet

Scopro, grazie all’amico Antonio, l’esistenza di questo personaggio singolare: Maurice Tillet. Affetto da una malattia che interferisce con l’ormone dello sviluppo -acromegalia- passa dall’essere un bel bambino -soprannominato l’angelo- all’essere un mostro dalle proporzioni marcatamente alterate. La sua vita e la sua persona non mancano di essere altrettanto singolari. Diventa un famoso lottatore -soprannominato in maniera beffarda “l’angelo francese”- ma è anche poeta, attore in erba; tutti lo raccontano come un uomo estremamente mite e gentile oltre che capace di parlare moltissime lingue, qui troverete soddisfatta ogni ulteriore curiosità.  Sono troppo ignorante per poter affrontare una figura così importante come quella del mostro, mi limiterò a riportare alcuni immediati collegamenti. Queste due suggestive foto  di Irving Penn che ritraggono Maurice assieme a Dorian Leigh (considerata la mamma di tutte le super-modelle)

Non riesco a non sentire in queste foto alcuni fatti salienti riguardo l’esser maschio.

Il secondo collegamento è un racconto di Borges (che potrebbe facilmente farvi innamorare di Borges per sempre) presente nella raccolta “L’Aleph”: La casa di Asterione. All’ultima riga capirete tutto e lo sforzo della disagevole lettura a monitor sarà ripagato. Eccolo qui:

“E la regina dette alla luce un figlio che si chiamò Asterione”
                                              Apollodoro, Biblioteca III, 1

So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole.
È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito)* restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi ne’ la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. 
E troverà una casa come non ce n’è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n’è una simile.) 
Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c’è un solo mobile. Un’altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c’è una porta chiusa, e aggiungere che non c’è una sola serratura? D’altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m’infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d’un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole.

La verità è che sono unico. Non m’interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l’arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall’altra. Un’impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi.

Certo, non mi mancano distrazioni. Come il montone che s’avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all’ombra di una cisterna e all’angolo d’un corridoio e giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l’addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m’addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch’egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: “Adesso torniamo all’angolo di prima,” o: “Adesso sbocchiamo in un altro cortile,” o: “Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell’acqua,” oppure: “Ora ti faccio vedere una cisterna che s’è riempita di sabbia,” o anche: “Vedrai come si biforca la cantina.” A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi.

Ma non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.

Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l’altro; senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d’uomo? O sarà come me?

Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.
“Lo crederesti, Arianna?” disse Teseo. “Il Minotauro non s’è quasi difeso.”

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Cose che dovrebbero esistere

Objets introuvables

Ringrazio sentitamente l’amico Niccolò per avermi segnalato l’esistenza di questo Jacques Carleman, designer, illustratore e pittore francese attivo negli anni 60/70.

Preside della facoltà di patafisica, è passato alla storia per uno stupendo inventario d’oggetti immaginari e introvabili, “Catalogue d’objets introuvables” pubblicato nel 1969 come parodia di quello che da noi era il catalogo postalmarket. Risulta quasi superfluo sottolineare come questi forbiti divertimenti dello spirito siano quanto mai essenziali per coltivare le forme più sane dello stupore e della gioia. Appresso una carrellata sparsa disordinata e per nulla sistematica.

la bottiglia assorbente, mi piacerebbe vederla usare per  sfidare le convenzioni e la noia ben vestita in occasione degli immancabili aperitivi

c’è chi si è preso la briga di costruirli e venderli, capirai co’ ‘sta fame che c’è in giro…

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l’epoca delle forme

Porto-Fluviale

Nel ragionare si può partire da grandi astrazioni e volta per volta -con movimento dall’altro verso il basso- intercalare i pensieri in ogni articolazione particolare della realtà oppure fare il contrario: partire da dettagli e intravedere più avanti, uno schema più vasto e generale. Questa seconda strada è evidentemente rischiosa quindi è con una certa dose di avventatezza che vorrei partire da quello che per esempio è l’arredamento dei nuovi ristoranti che vedo aprire sempre più spesso (la recessione porta noi occidentali a concentrarci esclusivamente sul cibo) e che mi dà sempre da pensare. Mi avventuro in pericolose etichette: è tutto fondamentalmente country-chic, un po’ shabby, spessissimmo provenzale, rigorosamente di modernariato -sempre finto-, sufficientemente disimpegnato ma per nulla ironico. Anche i ristoranti a tema nei parchi di divertimenti sono così, non sono ironici e cercano con minore o maggiore impegno di essere credibili -almeno sulla carta-. Infatti sono ridicoli prima ancora che finti (avete capito di che parlo no? Lo snack bar dei pirati, la bisteccheria del vecchio west, la gelateria dello spazio…). Nei ristoranti aperti negli ultimi 10 anni in realtà l’aria è la stessa. Cammino su parquet finto vecchi0 a grosse doghe, passo accanto a credenze  provenzali anni 50, illuminato da vecchie lampare marinare di latta dipinta, bevo da bottiglie anni 40 con il tappo a guarnizione, i camerieri hanno parannanze di cotone grezzo,  tutto è minimal ma non troppo -qui mi fermo non mi addentro nel tema cibo, mi perderei- In pratica sono in un posto che è una miscellanea di new york negli anni 80, la Camargue negli anni 50, un isoletta greca e una vecchia trattoria della via emilia, etc etc. Anche casa mia è così, qual’è il problema? Il problema è che è tutto finto. In prima battuta sei finito in un luna park per adulti dove io non mi diverto. Ma questo è solo l’inizio, come dicevo prima, a ben vedere c’è uno schema da intravedere. Se ascolti musica prodotta negli ultimi dieci anni è evidentissimo che l’unica raison d’etre di ogni formazione è la miscellanea di genere. Tutto quello che è stato prodotto dagli anni 40 agli anni 90 viene con infinita variazione miscelato con lo stesso gusto fine a se stesso con cui ognuno compra e cambia la cover del proprio iPhone. Chitarre distorte glam rock anni 80, fiati anni 40, drum machine anni 80, suoni sintetici a 8 bit dei vecchi videogiochi, pop inglese rigirato in ogni declinazione, vecchie chitarre acustiche folk e banjo. e via così (che Dio abbia pietà di noi per i Mumford&Sons). Qual’è il problema? E’ che questa infinita variazione di forma non stupisce e non emoziona mai. Se così non fosse non si finirebbe per riproporre sempre la stessa musica (disco anni 70 nei locali, cover anni 70/80/90 nei talent, cartelloni di concerti estivi dove le band di ultra cinquantenni sono la maggioranza schiacciante). Questi pochi dati di fatto mi fanno pensare di non essere afflitto da un precoce cinismo senile. Tornando a casa mi è cascato l’occhio su un gruppo di adolescenti vestiti come in un video di MC Hammer con quel che resta della dissacrazione degli anni ’90. Ragazze che fanno spogliarelli Burlesque citando una estetica vittoriana che poi mai è esistita, o ragazze con fazzoletti in testa e rossetti sgargianti travestite da bad girl anni 50, piene di tatuaggi, ragazzi ingoffiti da occhialoni e golfini da secchione/nerd -gli sfigati di una volta-. E se mi mettessi a fare l’elenco dei remake cinematografici? Dei film tratti da vecchi telefilm? Da vecchi fumetti (tipo iron-man)? Un elenco lungo tanto quanto la noia di recenti film più “impegnati” che riescono solo a essere ermetici, fumosi e sostanzialmente vuoti.

Ma di cosa sto parlando? Di forme! E i contenuti? Non ci sono contenuti, non c’è nulla, inutile girarci intorno. Una volta in un’opera compiuta -di ogni genere e tipologia- la coincidenza tra forma e contenuto era l’ottimo risultato a cui numerose volte si perveniva. Mi sa che ora siamo allo stallo. Abbiamo cominciato con il post-modern citando e ridicolizzando tutto, infrnagendo ogni regola. E adesso? Boh… Rielaboriamo forme, ci travestiamo, camuffiamo. Tutto è scenografia, legno dipinto da un lato, tutto finto, come nelle feste a tema. Ci sono sempre feste a tema in giro in cui travestirsi. Non è un carnevale, nessuna sovversione dei ruoli, nessuna vera “follia”. Il contrario: proprio l’eterno gioco dei ruoli, stilizzati però e risolti nella loro mera forma esteriore. La forma non è il risultato di un processo, non è l’espressione formale di un contenuto.  Aiuto.

Procedo ancora verso l’alto e penso che ogni linguaggio, ogni forma strutturata -in qualche modo- diventa poi forma del pensiero, cioè una delle forze in grado di scoprire e portare nel mondo valori per rendere ricco e bello l’esistere. Tanta della filosofia di questa secolo, a cui la riflessione su pensiero e linguaggio sta molto a cuore, è arrivata ad una inquietante constatazione: noi non parliamo attraverso un linguaggio ma siamo parlati dal linguaggio, il nostro pensiero non è così libero e fecondo come sembra. Sembra un paradosso eppure è vero. Una banale dimostrazione la si ritrova nella estrema omologazione della lingua parlata -nell’epoca dei mezzi di comunicazione capillare di massa- con esiti spesso goffissimi. L’uso improprio del “piuttosto che” è solo un esempio famoso e sciocco, tanto per capirci… O quei pochi filtri simili-analogici delle app fotografiche che parlano più delle cose che fotografiamo, la realtà diventa il pretesto per parlare la lingua stilizzata di istagram, anzi perchè il linguaggio delle vecchie foto analogiche (inteso solo nella sua “epidermide formale”: colori alterati, difetti ottici, polvere, viraggi etc) parli attraverso di noi, tanto per non astrarre troppo.

Cosa succede allora se le forme parlano attraverso di noi di altre forme?! Succede che si produce il vuoto. Io infatti mangio a casa o in posti autenticamente squallidi, dove mi sento incredibilmente meglio.

ps: ho dimenticato di attraversare il dominio delle arti visive, della letteratura e del teatro -che, guarda un po’, è deserto!- ma tanto avete capito, potete fare da soli.

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Decostruzione e Ricostruzione

Dal 22 al 24 di Febraio c’è questa cosa qui

Se non sapete cosa sia un maker, né cosa sia il movimento maker e la filosofia del DIY penso che l’immagine sopra vi dia un’idea intuitiva immediata ed efficace.

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e a noi?!

Riporto da repubblica.it  alcuni estratti dalla loro rubrica “le parole sono importanti” per evidenziare come la cosa entri in palese in contraddizione quando si lascia decidere alla fama chi debba esser considerato degno d’esser ascoltato. Purtroppo se non si commenta il sarcasmo rischia di non esser colto, preferisco passare per pedante…

Sono sicuro che ne Vasco ne Morgan però ti considerano la loro parte femminile, ma penso nemmeno ET. Son tutti però accumunati da alcuni problemi di intonazione (si ok Morgan meno di tutti)

Se puo' aiutarti caro Morgan ci piacerebbe mandarti affanculo come uno qualunque

di tutte le cose significative degli anni '70 ci vuole talento per prendere le più insulse. Guardando la foto però Cesare Lombroso non avrebbe avuto dubbi

Una battuta così puerile sulla moda è seconda solo ad andare ad una mostra di Picasso e dire "e vabbeh ma questo lo saprei disegnare anch'io!"

Sguardo profondo, parole profonde, qualunquismo D.O.C. Oltre che vederti recitare bisogna sopportarti anche come opinionista?!

la fica che vuole fare la disinvolta mi fa davvero incazzare

Nel volerci risparmiare l'ipocrisia de "la bellezza vera viene da dentro" Kate ci regala il cliché pieno della bella, bionda e idiota. Un autogol di rovesciata da centrocampo

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Darwin e le graffette

Non è un percorso evolutivo (semmai per alcuni involutivo, visto che molti della graffetta hanno il quoziente intellettivo)
Riporto questo sfizioso estratto dal “libro dell’ignoranza” di John Lloyd e John Mitchinson, edito da Einaudi.

Chi ha coniato l’espressione «sopravvivenza del più adatto»?
Herbert Spencer.
Spencer era un ingegnere, un filosofo e uno psicologo, famoso ai suoi tempi quanto Darwin. Fu il primo a coniare l’espressione «sopravvivenza del più adatto» nei Principî di biologia (1864), ispirato dalla teoria darwiniana della «selezione naturale».
Darwin gli rese l’onore di usarla poi egli stesso nella quinta edizione dell’Origine della specie nel 1869, commentando:
Questo principio per il quale ogni lieve variazione, se utile, si mantiene, è stato da me denominato «selezione naturale», per indicare la sua analogia con la selezione operata dall’uomo. Ma l’espressione «sopravvivenza del più adatto», spesso usata da Herbert Spencer, è più idonea, e talvolta ugualmente conveniente.

Herbert Spencer (1820-1903) era il maggiore di nove figli, e tutti gli altri morirono da bambini. Dopo aver studiato da ingegnere civile, divenne un filosofo, uno psicologo, un sociologo, un economista e un inventore. Vendette più di un milione di copie dei suoi libri mentre era ancora in vita e fu il primo ad applicare la teoria evoluzionista a psicologia, filosofia e agli studi sociali.
Fu anche l’inventore della graffetta. Lo strumento venne chiamato Spilla Spencer per rilegare e venne prodotto grazie a una macchina per le allacciature a gancio modificata da un fabbricante di nome Ackermann, i cui uffici si trovavano sullo Strand di Londra. Andò bene il primo anno e rese a Spencer 70 sterline, ma poi la domanda cadde, Ackermann si sparò e l’invenzione era del tutto sparita quando, nel 1899, l’ingegnere norvegese Johann Vaaler registrò il brevetto per la graffetta moderna in Germania.
Durante la Seconda guerra mondiale, le graffette furono un simbolo emotivo della resistenza norvegese all’occupazione tedesca: se ne metteva una sul risvolto della giacca, al posto degli emblemi proibiti dell’esiliato re Haakon VII. Più tardi, a Oslo venne eretta una graffetta gigantesca in memoria di Johann Vaaler.
Oggi, si vendono ogni anno più di 11 miliardi di graffette, ma secondo una recente indagine soltanto 5 su 100000 clips sono effettivamente usate per tenere insieme i fogli. Per la maggior parte, servono come fiches per il poker, nettapipa, spille da balia e stuzzicadenti. Le altre cadono e si perdono, o vengono piegate parte, servono come fiches per il poker, nettapipa, spille da balia e stuzzicadenti. Le altre cadono e si perdono, o vengono piegate e deformate nel corso di tediose o difficoltose telefonate
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Benoit Mandelbrot

Oggi è morto Mandelbrot, un grande matematico, il padre della geometria frattale. “Ci ha regalato l’ordine dal caos” riporta un necrologio. Questa è l’immagine dell’insieme di Mandelbrot. Anche se non siete dei matematici c’è una buona probabilità che lo abbiate visto almeno una volta nella vita:

Per il mio caro amico A. , Mandelbrot è stato l’uomo che gli ha cambiato la visione della matematica e dell’informatica. E per quanto possa sembrar strano ai più, tutto questo ha anche in parte determinato la vita futura di A. E’ per pura empatia che quindi condivido con lui questo shock che ha turbato la sua mattina.

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Coppie

“solo che è una coppia, je ne devo vende due…”

In altri tempi questi due sarebbero star come nei vecchi varietà anni ’70, tipo canzonissima…

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Celebri scrittori e le loro dipendenze

Life ha un’interessante galleria di importanti personaggi del mondo della letteratura (e dintorni) , accostati alle loro dipendenze.
La didascalia di Stephen King dice:

Nel suo libro di memorie, On Writing, King rivelò di essere stato così distrutto dal suo abuso di alcohol e droghe negli anni 80 da, ancora oggi, non ricordare di aver lavorato a molti dei suoi libri scritti in quegli anni. C’erano giorni in cui sniffava così tanto da dover scrivere con del cotone infilato nelle narici per non far gocciare il sangue sulla macchina da scrivere.

Famous Literary Drunks and Addicts

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Per chi suona la campana

Pesavo che questo blog dovesse a cominciare ad avere del materiale prodotto dai suoi stessi redattori, delle esclusive… 🙂

Mi trovavo in Spagna per un reportage sul camino de Santiago. Ero in un pullman e davanti a me un sacerdote siciliano comincia a raccontare della sua parrocchia. Per qualche strano motivo il conducente del pullman aveva messo su una cassetta con della musica lirica, il che dava una certa atmosfera da “il Padrino”. Ho acceso l’iPhone e ho registrato tutto. Potete scaricare il file qui.

Piccola sinossi per chi avesse meno confidenza con il dialetto: tutto ruota attorno ai rintocchi orari delle campane della sua chiesa. La parrocchia in questione si trova al mare, in una zona residenziale, vicino ad una discoteca molto rumorosa. Il parroco non si capacita come possa davvero qualcuno venire da lui a chiedergli di zittire le campane per via del troppo disturbo. Il racconto viene interrotto dall’arrivo in pullman di un esimio professore che faceva da guida. Si mormora del suo vizio di alzare il gomito. Nota di glossario: parrino vuol dire prete; per i più pignoli c’è questo.

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